Abbiamo lottato per millenni per procurarci il cibo. Ora ne abbiamo tanto da sprecarlo. La soluzione? sensori antispreco!
Lo spreco di cibo nella nostra vita di tutti i giorni non pesa solo sul nostro portafogli, ma sull’intera Terra: secondo la FAO, il 28% del terreno coltivato a scopo alimentare viene utilizzato per produrre cibo che viene sprecato. Negli USA, questa quantità ammonta a 60 milioni di tonnellate all’anno, e occupa il 21% dello spazio disponibile nelle discariche.
Sono numeri così grandi che viene da chiedersi se tutti noi su questa terra facciamo spese sconsiderate che ci scordiamo nel frigo oltre il limite indicato di conservazione. Ma in realtà, i consumatori sono responsabili di una minima parte delle perdite: se la catena di distribuzione fosse una conduttura, farebbe semplicemente acqua da tutte le parti!
In questo articolo troverai:
- Come si spreca il cibo?
- Il mondo chiama, la scienza risponde
- La chimica dei food sensors
- Sensori a colori
- I sensori alimentari arriveranno mai nelle nostre dispense?
- Niente più scuse per buttare il cibo!
Come si spreca il cibo?
Alcune materie prime particolarmente deperibili possono andare a male ben prima di raggiungere il distributore. Un esempio? Alcuni tipi di pesce appena pescato devono essere sottoposti ad analisi chimiche a campione per rilevare la presenza di istamina. Le analisi attualmente disponibili comportano procedure lente, che richiedono operatori specializzati, e forniscono risultati non esattamente in tempo reale. Morale della favola? Se il pesce non viene analizzato in tempo, può anche andare a male prima ancora di arrivare al bancone del mercato.
Arrivando allo stadio della distribuzione si manifesta forse il problema più noto parlando di spreco di cibo. Gli alimenti che oltrepassano la data di scadenza nei supermercati non vengono venduti, anche se in alcuni casi sono perfettamente mangiabili, e finiscono per essere gettati via.
La data di scadenza, poi, una volta che il cibo è nella nostra dispensa, crea più confusione che altro. Se espressa con la formula “Da consumarsi preferibilmente dentro”, rappresenta solo una data indicativa oltre la quale il cibo in questione potrebbe perdere parte delle sue proprietà organolettiche. Niente che darebbe realmente problemi: eppure molte persone confessano di farsi prendere dal panico e gettare via l’alimento seguendo senza discutere le indicazioni dell’etichetta. Atteggiamento che, secondo dati della ICF International, è responsabile del 9-12% dello spreco totale di cibo tra gli abitanti di Paesi Europei. Un problema mica da niente!
In questo post abbiamo parlato di come destreggiarsi nella giungla delle date di scadenza!
Il mondo chiama, la scienza risponde
A dire il vero, con un rapido esame dei nostri dispositivi integrati (vista, olfatto e gusto) possiamo venire a capo della questione, nella maggior parte dei casi. Ma sfortunatamente, non sempre questi sono abbastanza sensibili per rilevare i segni iniziali dei processi di decomposizione.
Questo fatto ha dato impulso, negli ultimi anni, ad una nuova branca della sensoristica che lavora verso un’analisi in tempo reale del cibo che compriamo o consumiamo!
Quando il nostro cibo va a male, vengono generati dei gas specifici che sono diagnostici del processo di decomposizione. Alcuni derivano da metabolismi batterici, come anidride carbonica, monossido di carbonio, solfuro di idrogeno e ammoniaca. Altri sono associati al processo di maturazione della frutta, come l’etilene. Il progressivo decadimento delle proteine, poi, porta alla generazione di composti maleodoranti a base di azoto, le ammine, che sono responsabili della maggior parte dei cattivi odori nella nostra cucina. Dietilammina, trietilammina e le evocative cadaverina e putrescina. C’è bisogno che vi dica di cosa puzzano? Ecco.
Se vuoi saperne di più sulle meraviglie delle molecole associate ai processi di decomposizione, leggi il nostro post!
La chimica dei food sensors
La chimica tradizionale ha già nel proprio arsenale una buona serie di soluzioni per rilevare queste molecole: metodi basati sulla gascromatografia e sulla spettroscopia, in primis. Il piccolo problema di questi metodi è che sono pensati per essere condotti in laboratorio, con personale specializzato e strumenti ingombranti. Niente di più lontano da un’analisi in tempo reale del nostro cibo, eh?
Quello a cui la chimica dei food sensors sta lavorando è la costruzione di sensori portatili e robusti che possano essere usati a casa o integrati nel packaging. Perché un sensore del genere possa essere utilizzabile, deve essere poco costoso e fornire una risposta facilmente interpretabile da un utente non specializzato. Inoltre, deve essere pensato per essere inserito o stampato in packaging flessibili (problema non da poco). Sensori del genere potrebbero sostituire, un giorno, la data di scadenza stampata sui pacchetti, e darebbero un’idea molto più precisa dell’effettivo stato di conservazione dell’alimento.
Sensori a colori
Ma cosa ancora è fantasia, e cosa già realtà? Alcuni prototipi di food sensors sono stati già progettati, e i risultati sono stupefacenti. Nel 2016 è stato messo a punto un sensore in grado di rilevare la presenza delle ammine nel pesce grazie a coloranti indicatori di pH. Il principio di funzionamento è abbastanza semplice: le ammine sono composti volatili e basici, per cui quando le molecole evaporano ed entrano a contatto con il sensore fanno reagire il colorante e inducono un cambio di colore.
In modo simile, ma più sofisticato, il sensore progettato nello stesso anno dall’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign è costituito da una striscia di plastica stampata su cui vengono disposti in successione 20 campioni di colorante.
Anche in questo caso, i coloranti sono scelti per la loro caratteristica di cambiare colore quando entrano in contatto con le molecole di interesse: solfuro di idrogeno, dimetti solfuro, trimetilammina e cadaverina. L’esposizione alla combinazione di gas di decomposizione genera un pattern unico che viene poi analizzato da una camera digitale e elaborato da un computer, per restituire le identità e le concentrazioni dei gas presenti. Concentrazioni ben più basse di quelle rilevabili dal naso umano: il limite minimo di rilevabilità va da tra i 7 e i 33 ppb per i quattro composti target.
Ah, e dimenticavo: il tutto con uno strumentino che entra nel palmo di una mano!
I sensori alimentari arriveranno mai nelle nostre dispense?
Sì, se riusciamo a tenere bassi i costi. Infatti, ha suscitato grandi speranze il sensore pubblicato nel 2019 da un gruppo dell’Imperial College di Londra: stampato su carta, è rivoluzionario proprio per via del suo bassissimo costo di produzione. Il sensore sfrutta il fatto che la cellulosa della carta trattiene umidità, e in queste minuscole riserve di acqua vanno a disciogliersi i gas rilasciati dal cibo man mano che va a male. Questi gas alterano la capacità della carta di essere attraversata da corrente elettrica. Il sensore rivela proprio queste differenze, e genera una risposta che può essere letta implementando il sistema con un’app per smartphone. Forte, eh? E sapete qual è il costo stimato di questi sensori? Meno di 2 centesimi.
Niente più scuse per buttare il cibo!
Ma questi non sono gli unici esempi. La letteratura scientifica è un tripudio di prototipi che non si limitano a rivelare la presenza di alcuni particolari composti. Esistono modelli in grado di rivelare se il pacchetto ha fatto entrare ossigeno (alterando così l’atmosfera controllata), se un prodotto congelato ha subito sbalzi di temperatura che ne hanno compromesso la conservazione, e così via. Con sensori del genere, non avremmo davvero più scuse per buttare nulla!
E voi vorreste mettere un sensore del genere nel vostro frigo o nei vostri pacchetti? Cambierebbe in qualche modo le vostre abitudini alimentari o di spesa? Fatecelo sapere nei commenti!