La stampa 3d, che alla nascita sembrava un raffinato giocattolo tecnologico, ora potrebbe rivelarsi un’alleata insospettabile verso un’alimentazione più sostenibile (e non solo).
Quanto indietro nel tempo dobbiamo andare per trovare la prima idea di stampa 3D?
Anni ’60. Nella serie tv cult Star Trek, il problema dell’approvvigionamento di cibo all’interno della navicella viene risolto introducendo il famoso replicatore. Lo strumento, ovviamente fantascientifico, è in grado di creare qualsiasi tipologia di cibo consumabile a partire da una materia prima “grezza” di base, riassemblandola a livello molecolare.
2018: la start up catalana Novameat annuncia un vero e proprio balzo in avanti nel food tech e propone il primo prototipo di bistecca vegetale stampata in 3D. La novità è nella texture: grazie ad una tecnica di stampa innovativa, è possibile ricreare la particolare consistenza a “microfibrille” dei tessuti muscolari. Il tutto a partire da materie prime completamente vegetali.
Le somiglianze tra il replicatore e una stampante 3D di cibo è saltata agli occhi di molti. Ma come siamo arrivati a rendere (quasi) realtà una invenzione da fantascienza? E soprattutto: perché, nel nostro futuro, dovremmo voler stampare il cibo in 3D?
In questo articolo scopriremo la storia della stampa 3D e come, grazie all’intuizione di un gruppo di studenti, sia sconfinata nell’ambito del food. E soprattutto… approfondiremo alcuni dei motivi per cui questa tecnologia sia ben lontana dall’essere solo un capriccio per chef sofisticati.
In questo articolo:
- Che cos’è la stampa 3D?
- Dalla plastica al cibo: un po’ di storia
- Capriccio o opportunità?
- La stampa 3D è (anche) un capriccio per chef sofisticati
- Cibo più sicuro per le persone affette da disfagia
- Combattere gli sprechi di cibo con la stampa 3D
- La stampa 3D alimentare amplia il concetto di “commestibile”
- In conclusione
Che cos’è la stampa 3D?
La stampa 3D è un processo che sfrutta tecniche di “manifattura additiva”, in cui un oggetto viene creato in maniera robotica e automatizzata attraverso la deposizione successiva di strati di inchiostro.
Il concetto è semplice: un po’ come avere una normale stampante che, a forza di stampare sempre la stessa immagine sullo stesso foglio, finisce per darle uno spessore (cioè una terza dimensione di profondità).
Questa stilizzazione è semplice da capire, ma di sicuro va detto che non rende giustizia alla complessità della tecnologia: la stampa 3D ha impiegato più di mezzo secolo passare da fantasia a realtà. Pur essendo stata teorizzata già negli anni ’40 e ’50, ha avuto un primo sviluppo embrionale solo negli anni ’70 per poi assumere contorni simili a quella che conosciamo ora solo nel 1988, anno in cui è stato depositato il brevetto di Scott Crump.
Il brevetto di Crump, ora alla base delle stampanti 3D più comuni e utilizzate, è quello della tecnica FDM, o “fused deposition modeling”. Con questa tecnica, un materiale plastico fuso viene estruso da un ugello mobile e deposto, strato dopo strato, per creare l’oggetto tridimensionale.
Dalla plastica al cibo, un po’ di storia
Inizialmente, la stampa 3D non era considerata una tecnologia adatta alla produzione vera e propria, quanto piuttosto alla prototipazione. Potevi, sì, stampare un oggetto a partire da un design computerizzato: ma i costi (alti) e la velocità di produzione (bassa) rendevano impensabile una vera e propria industrializzazione. A peggiorare la situazione, fino ai primi anni 2000 tutte le stampanti 3D in circolazione erano protette da brevetto, rendendo impossibile una diffusione estesa della tecnologia.
A cambiare le carte in tavola è stato, nel 2006, un gruppo di studenti della Cornell University che misero a punto una versione semplificata, open source e “fai-da-te” di una stampante 3D, la Fab@Home. La novità non era solo nell’abbattimento dei costi e nelle dimensioni contenute che la rendevano adatta anche allo studio di uno smanettone, ma anche nei materiali innovativi che questa stampante era in grado di stampare. Non solo polimeri termoplastici, ma un gran numero di materiali “soffici” di uso comune, tra cui… cioccolata, formaggio e impasto dei biscotti!
Al giorno d’oggi, un inchiostro per stampante 3D può includere una lunga lista di ingredienti alimentari oltre a quelli già menzionati, come frutta e verdura ridotte in purea, gelatine e impasti. Più in generale, possono essere formulati inchiostri più o meno complessi, che includano macro e micro nutrienti ad hoc a seconda dell’alimento che si vuole costruire. La differenza con il replicatore di Star Trek qui si assottiglia… tranne ovviamente per il fatto che quello produceva alimenti direttamente pronti all’uso, mentre quelli della stampante 3D di solito vanno cotti.
capriccio o opportunità?
“Solo perché puoi non vuol dire che devi”: probabilmente molti di voi ora staranno pensando proprio questo. E la domanda è legittima: chi me lo fa fare di stampare 3D una mela, quando la natura le produce già fatte?
In realtà non stiamo parlando di un’innovazione tecnologica fine a sé stessa, ma di uno strumento – certo ancora da perfezionare – che per molte persone potrebbe significare una migliore esperienza con il cibo e, più in generale, potrebbe cambiare radicalmente il nostro modo di alimentarci.
Ma andiamo per ordine: ecco una serie di motivi (spiegati facili) per cui questa tecnologia è molto più che un capriccio per chef sofisticati.
La stampa 3D è (anche) un capriccio per chef sofisticati
Abbiamo appena detto che non è solo quello, ma questo non toglie che la stampa 3D di cibo offra al mondo della cucina opportunità senza precedenti di sperimentare nuove forme, consistenze e sapori.
Per la prima volta nella storia, diventa relativamente facile separare l’aspetto di un alimento dal suo contenuto e dal suo sapore e questo offre infinite possibilità di personalizzazione. Ma, più di ogni altra cosa, la forma del cibo non segue più i limiti prima dettati dalla bravura e dalle possibilità strumentali dello chef.
BluRhapsody, startup dell’italianissima Barilla, sfrutta ad esempio la stampa 3D per creare formati di pasta completamente nuovi e personalizzati. La produzione classica, via estrusione, dei vari formati di pasta permette per forza di cose un numero limitato di forme. E se pensavate di averle già viste tutte con la pasta-alce di Ikea o quella maliziosa da addio al nubilato, con la stampa 3D vi si aprirà un mondo completamente nuovo. Potete togliervi lo sfizio di kalpis, un adorabile “maccherone-pro” a forma di anfora panciuta, o ricreare suggestioni marine con sea urchin o mussel (a forma di riccio di mare o guscio di cozza, quest’ultima ovviamente nera). Il costo? Un po’ salato, ma di sicuro non sono formati di pasta da mangiare tutti i giorni!
Cibo più sicuro per le persone affette da disfagia
La disfagia è una condizione medica che prevede difficoltà nella masticazione e nella deglutizione. Può manifestarsi a qualsiasi età, con normale prevalenza nella popolazione più anziana. Gli individui interessati da questa condizione sono caratterizzati da un aumentato rischio di infezioni polmonari (o addirittura di soffocarsi con il cibo) dovuto al fatto che il cibo non viene deglutito in modo corretto.
Proprio per questo, la nutrizione e l’idratazione devono avvenire tramite puree e gelatine, più semplici da deglutire ma totalmente deprimenti nel gusto e nell’aspetto. La dimensione del disturbo è infatti anche psicologico – dovuto all’impossibilità di pensare al pasto come momento di piacere e di condivisione – tanto che spesso questo sfocia nella malnutrizione e disidratazione.
Ed è proprio qui che lo “slegamento” tra sapore e consistenza offerto dalla stampa 3D viene chiamato in causa. Dal 2012 al 2015, il progetto PERFORMANCE – guidato dalla compagnia tedesca Biozoon – ha tentato l’introduzione della stampa 3D come metodo di produzione automatizzata di pasti speciali per chi è affetto da disfagia. L’idea era quella di stampare cibi con consistenza morbida e facilmente deglutibile in forme realistiche che corrispondano al reale sapore del cibo, e che siano più invitanti di una semplice purea. Il progetto, al termine del finanziamento dell’Unione Europea, non era ancora pronto per un trasferimento su scala industriale e quindi è stato sospeso: ma non disperiamo che la progressiva maturazione della tecnologia possa riportare alla luce questo progetto o progetti simili.
combattere gli sprechi di cibo con la stampa 3D
Quanto cibo ancora commestibile scartiamo? Risposta facile: tanto. La stampa 3D permette di riutilizzare, con un’altra forma, quello che può essere ancora mangiato ma che è troppo poco fresco per essere venduto. Pane secco e altri prodotti da forno, frutta e verdura matura (ma anche gli esemplari troppo brutti per essere venduti nei supermercati), in questo modo possono evitare di finire al macero. È quello che fa la startup olandese Upprinting Food, che fa tesoro dell’esperienza nel design industriale della fondatrice per trasformare resti di cibo commestibile in snack dalle forme accattivanti.
In più, bucce e scarti agricoli commestibili possono essere inclusi, tramite stampa 3D, in snack ricchi di fibre, utili ad integrare il normale apporto giornaliero. Certo, questo potrebbe essere fatto indipendentemente dalla stampa 3D, ma le variabili di stampa permettono di controllare minuziosamente la microporosità degli impasti, garantendo una migliore cottura e una texture vincente (che su prodotti ricchi di fibra è un aspetto critico!).
In realtà, la stampa 3D è una tecnologia intrinsecamente “antispreco” proprio per il modo in cui funziona. Nelle produzioni tradizionali, alimentari e non, spesso si “ritaglia” la materia prima: si pulisce la verdura, si seziona un pezzo di carne per ottenere il taglio desiderato, con una conseguente produzione di scarti che devono essere rielaborati o smaltiti. Nella stampa 3D, si utilizza esclusivamente la materia prima necessaria strettamente necessaria. Proprio per questo, uno studio del 2018 classifica la stampa 3D come “una delle 12 tecnologie che favoriranno lo sviluppo di ecosistemi urbani sostenibili”.
La stampa 3D alimentare amplia il concetto di “commestibile”
Avete mai pensato di includere insetti, alghe e microorganismi nella vostra alimentazione? (No, le alghe del sushi non contano). Anche se siete scettici sui non-conventional food, potrebbe essere il momento di pensarci bene: la popolazione mondiale aumenta a ritmi paurosi e c’è bisogno di cibo, molto cibo, per sfamare tutti i suoi abitanti. Nello specifico, al tasso di crescita attuale, nel 2050 saremo circa 10 miliardi di persone ad abitare la Terra.
Brutta notizia: la quantità di terra coltivabile non può aumentare (a meno che non colonizziamo Marte e troviamo il modo di coltivarne il suolo).
Bruttissima notizia: in tanti iniziano a considerare gli insetti come una possibile (e ottima) fonte di cibo.
Ma se già vi state agitando all’idea di uno spezzatino di blatte, non perdete la speranza: la stampa 3D potrebbe cambiare parecchio le carte in tavola. Anche in questo caso, il fattore vincente è la possibilità di slegare sapore, forma e consistenza, permettendo di includere alimenti vincenti dal punto di vista ambientale e nutrizionale, ma disgustosi, in cibi insospettabilmente “normali”.
Gli insetti, ad esempio, sono una fonte proteica a basso costo sia ambientale che economico. L’allevamento di grilli è in grado di fornire 350 g di proteine per litro di acqua utilizzato, a fronte dei 125 della carne di manzo. Il tutto, con un ciclo di crescita strepitosamente più breve (7 settimane contro i 16-18 mesi) e un’emissione di gas serra di circa 100 volte inferiore. Non siete ancora convinti a mangiare uno spiedino di grillo, vero? Neanche io. Ma i grilli possono essere ridotti a farina – una farina ricchissima di proteine – e inclusi negli inchiostri, per produrre snack proteici o – chissà? – anche fake meat. Tentereste l’assaggio, a queste condizioni? Mentre il mondo del food tech ci lavora, portatevi avanti e pensateci.
In conclusione
La domanda da un milione di dollari è: ma poi questo cibo stampato 3D se lo mangia (o mangerebbe) effettivamente qualcuno? Numerosi studi al momento cercano di rispondere proprio a questa domanda di recentissima nascita, mettendo in evidenza possibili ostacoli al consumo legati a fattori culturali, sociali o etici. E, al momento, ce ne sono: uno su tutti, la mancata “naturalità” di un cibo che viene percepito pericolosamente sintetico.
Certo, è un campo completamente nuovo, in cui ci sarà tanto da migliorare, decidere, regolare. Noi al momento possiamo solo assistere agli sviluppi, ma è importante partire con il piede giusto e con le giuste conoscenze di base, senza lasciare che disinformazione e non-informazione generino pregiudizi difficili da scardinare. Solo in questo modo, quando troveremo sul nostro piatto la bistecca 3D di Novameat, potremo decidere con cognizione di causa se assaggiarla o se… lasciarla nel piatto.
E noi siamo riusciti, con questo articolo, a darvi una prospettiva interessante sulla stampa 3D alimentare? Fatecelo sapere nella sezione commenti o scriveteci!
Altre fonti
https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/87559129.2020.1762091 Una magnifica review (in inglese) che affronta “a volo d’uccello” molti degli aspetti critici e di interesse della stampa 3D alimentare.