L’automazione sta arrivando anche nei laboratori di chimica. Tutti contenti… oppure no? Scopriamolo in questo articolo!
Noi chimici abbiamo una relazione complicata con chiunque ci tolga dalle spalle un po’ di lavoro in laboratorio. Da una parte, sicuramente, l’idea di risparmiare tempo ed energie ci attrae. Dall’altra, però, il sentimento condiviso è quello che un computer ti stia rubando il lavoro.
Molti ricercatori sono affezionati, al limite con il masochismo, al ricordo delle ore infinite passate in laboratorio a sintetizzare o purificare questo o quel composto. In alcuni ambienti, soprattutto nella sintesi organica, i più tradizionalisti sono affezionati all’idea di una chimica “creativa”, dove i risultati sono frutto di ispirazione ed intuizione come fosse una forma d’arte. Ma la tecnologia invade, anno dopo anno, tutti gli ambiti delle nostre vite. La ricerca chimica si evolverà o avrà il coraggio di restare indietro?
in questo articolo:
- Convivere con le macchine
- Arriva il Chemputer! L’automazione su scala di laboratorio
- Come funziona il Chemputer
- L’automazione al servizio della sintesi
- Chiedi “una mano” al computer
- “Ma così finisce tutto il divertimento”
Convivere con le macchine
Ormai da diversi decenni, ricercatrici e ricercatori si stanno gradualmente abituando ad un piccolo grado di “convivenza con le macchine”. Alcune sintesi chimiche iterative, come quelle di polipeptidi e oligonucleotidi, possono essere condotte in via automatizzata. Ancora più comunemente, gli strumenti che compiono analisi e purificazioni ripetitive sono a disposizione non solo delle aziende, ma anche di una buona parte di laboratori universitari. E hanno permesso alla ricerca di condurre passi da gigante, perché il tempo destinato a ripetere la stessa attività può essere meglio impiegato altrove.
Tuttavia, il mondo della sintesi chimica, soprattutto a livello di ricerca, è rimasto indietro. Se parliamo di sintesi condotte su piccola scala in laboratorio, la vetreria e gli strumenti utilizzati oggi potrebbero benissimo essere usciti dal corredo di lavoro di Kekulé, Perkin e Lavoisier.
arriva il chemputer! L’automazione su scala di laboratorio
C’è un motivo per cui nei laboratori si usa ancora la vetreria di due o tre secoli fa: è meravigliosamente versatile. Gli strumenti di base del chimico sono primitivi, ma flessibili, e possono essere utilizzati in procedure completamente diverse. Anche con un po’ di fatica, in sostanza, riescono a farti portare a casa la giornata.
Sostituirli non è semplice. Un conto, infatti, è inventare un macchinario che compia sempre la stessa attività ripetitiva al posto nostro. Ma inventare un sistema che abbia la stessa flessibilità dell’eterna coppia “vetreria + olio di gomito” è un altro paio di maniche.
Ma perché dovremmo puntare all’automazione anche nei “piccoli” laboratori di ricerca? Non solo per ragioni di tempo, ma anche di rese e riproducibilità delle procedure. Per farvi un esempio, il tipico scenario in un laboratorio di chimica organica prevede:
- Ricercatrice 1 esegue una sintesi, prodotto ottenuto con il 50% di resa.
- Ricercatore 2 esegue la stessa sintesi nello stesso modo, prodotto ottenuto con il 20% di resa. Oops!
Cosa è successo? Uno dei due ha sbagliato qualcosa? Il ricercatore 2 ha usato reagenti “andati a male”, o si è perso del prodotto lavorando maldestramente? La ricercatrice 1 ha sbagliato a pesare? Tutto è possibile, ma se non altro automatizzando la procedura si esclude il fattore dell’errore umano. Ah, se solo avessimo una macchina del genere, quanti pomeriggi passeremmo a lavorare in pace anziché spaccarsi la testa sui quaderni di laboratorio!
Vi stupirà, eppure c’è qualcuno che non solo ci sta provando, ma sta anche riuscendo nell’intento. Il gruppo del prof. Lee Cronin all’Università di Glasgow ha messo a punto un progetto visionario: il Chemputer, un sistema computerizzato in grado di portare avanti un alto numero (in crescita) di diverse sintesi chimiche in quasi totale autonomia.
come funziona il chemputer
Il prof. Cronin mi perdonerà per l’orrore che sto per dire, ma se dovessi descrivere il Chemputer in parole semplici vi direi che è una specie di Bimby della chimica. O meglio, un sistema di svariati Bimby che prendono comandi da un computer, lavorando in sequenza e facendo tutto quello che fa un chimico di laboratorio: agitare, scaldare, filtrare, estrarre, evaporare, purificare… e così via. Scusi Prof.
Secondo Cronin, l’automazione avrebbe avuto posto in un laboratorio di chimica solo se avesse rispecchiato la mentalità del chimico e i 200 anni di chimica moderna che hanno portato al suo bagaglio di conoscenze. Il Chemputer prende le sintesi chimiche, nel modo in cui sono state fatte da 200 anni, le traduce in un linguaggio di programmazione e le fa condurre da una serie di reattori automatici. Il codice è stato recentemente pubblicato su Science; Cronin ne incoraggia l’uso e la modifica da parte di tutta la comunità scientifica, per espandere sempre di più il database di molecole che il Chemputer può processare.
In questo modo, nel gruppo di Cronin (che secondo una fonte del 2019 aveva a disposizione ben otto Chemputer) sono stati sviluppati i codici per sintetizzare in modo totalmente automatizzato una lunga serie di molecole di interesse farmaceutico: tra le altre, Difenidrammina, Rufinamide, Lidocaina e Sildenafil. Stessi ottimi risultati con reagenti chimici “quotidiani”, come agenti ossidanti e fluoruranti. E Cronin è ottimista: un Chemputer modello “base” può essere assemblato con poche migliaia di sterline, un prezzo che qualsiasi istituzione che voglia investire nell’innovazione può permettersi. E in linea di principio, dice, non c’è nessuna reazione fatta da mani umane che sia impossibile per il Chemputer.
Insomma: in questo panorama meraviglioso, al ricercatore o alla ricercatrice non resta che occupare il loro tempo in maniera più fruttuosa che perdere tempo a sintetizzare i loro composti. Per esempio, pensando a nuove e migliori vie sintetiche per arrivare a quei composti… sempre che un’intelligenza artificiale non ci pensi al posto loro.
L’automazione al servizio della sintesi
Sintetizzare una molecola è solo la metà del lavoro: prima bisogna pensare ad una sintesi che funzioni. Ma come si concepisce una sintesi che non è già stata descritta in letteratura?
Il metodo normalmente usato, quello della “retrosintesi”, è stato formalizzato da E. J. Corey, superstar mondiale della sintesi di molecole complesse.
Procedere per retrosintesi significa partire dalla molecola finita e immaginare di andare all’indietro verso i suoi precursori via via meno complessi. Una volta arrivati al precursore più piccolo e semplice possibile, si pensa a come riconnettere ogni “disconnessione” tramite un passaggio di sintesi. Non è un lavoro facile, perché bisogna fare attenzione che i passaggi di sintesi condotti in sequenza non abbiano un effetto “tela di Penelope” – alcune reazioni possono disfare quello che è stato fatto qualche reazione fa. Difatti, non solo sono indispensabili un’enorme conoscenza chimica e una eccezionale visione d’insieme, ma anche una grande creatività e una buona dose di pensiero laterale.
Molti la considerano una vera e propria forma d’arte. Ma la verità è che richiede una quantità folle di energie e forza lavoro: per la sintesi della vitamina B12, nel 1972, sono stati necessari due gruppi di ricerca (tra Harvard e ETH), 91 ricercatori e 12 dottorandi. Una specie di piramide di Cheope della sintesi chimica. Ma è davvero necessario fare tutto da soli? O possiamo puntare anche qui sull’automazione?
Chiedi “una mano” al computer
Un computer di sicuro non avrà creatività in senso stretto, ma ha l’accesso a enormi database e una possibilità virtualmente infinita di confrontare le varie procedure. Questo rende la pianificazione delle sintesi un campo virtualmente perfetto per essere aiutato da un’intelligenza artificiale!
Non a caso, già esistono software per la cosiddetta CASP, “Computer aided synthesis planning”, che cercano di integrare e potenziare l’approccio creativo dell’essere umano.
Alcuni di questi, come Synthia™ di Merck, usano un metodo “rule based”, cioè sono basati su modelli fissi e si basano sulle nozioni già esistenti. Sono robusti e affidabili, ma non riescono ad aggiornarsi con rapidità seguendo la continua espansione della conoscenza chimica. Altre strategie di CASP, come Scifinder n, sono basate su reti neurali e deep learning e puntano ad una maggiore flessibilità. Attualmente sono in fase di sperimentazione vari tipi di strategie, anche ibride tra i due approcci limite. Questo ci fa sperare che l’automazione si integri sempre di più nella vita di chi fa ricerca, rendendola più semplice e produttiva. E, sì – anche in questo campo che finora è stato orgogliosamente proprietà della mente e della creatività umana.
“Ma così finisce tutto il divertimento”
Incredibile ma vero, questa è la risposta che mi sono sentita dare da più di un collega parlando di questi argomenti al tempo del dottorato. Non tutti abbracciano l’avvento dell’automazione con entusiasmo: alcune persone temono che il lavoro del ricercatore si trasformi in premere bottoni. Senza dubbio parte della colpa di questo fraintendimento va ad una mentalità difficile da eradicare (almeno in Italia): lavorare (e faticare) di più è a prescindere meglio che lavorare di meno. Ovviamente, in questo calcolo, la qualità del lavoro non viene considerata!
Dietro questa idea, che sopravvive perché promossa da molti supervisori “vecchio stampo”, c’è la convinzione opportunista che il tempo di ricercatori o ricercatrici valga poco o niente. Così poco da poterne usare all’infinito pur di non investire pochi spicci (a volte si tratta veramente di questo) in modernità.
L’automazione non sarà la fine della chimica di laboratorio, né condannerà la creatività umana a spegnersi davanti allo schermo di un computer. Semmai, sarà uno stimolo a fare di più e meglio – magari, migliorando anche un poco la ripartizione del nostro tempo tra vita e lavoro. Detto questo, chi pensa ancora che non ne valga la pena?
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